venerdì 16 settembre 2011

Ich fahre, du fährst, er/sie fährt

Foto presa qui.

Lo so, lo so che alle volte siamo un po' monotematiche, ma la questione lasciare l'Italia / rimanere in Italia è davvero fondamentale nelle nostre vite, soprattutto ultimamente, con Etwas alla ricerca di lavoro e io in dubbio col mio. Siamo in un periodo di transizione in cui lasciare tutto e partire sarebbe relativamente facile, si tratterebbe davvero soltanto di riempire qualche scatolone, capire come trasportare T., educarsi a pensare direttamente in lingua e non tradurre in un secondo momento. Il resto, la parte sostanziale, sarebbe da affrontare lì come qui, e forse, ci diciamo, forse lì sarebbe anche più facile. Per lo meno a Berlino gli affitti sono decisamente più bassi. Per lo meno lì potremmo avere dei diritti, dei figli (con calma, eh, siamo ancora giovani e spensierate, ma sappiamo bene che spostarci fra dieci anni sarebbe mille volte più complesso).
Non si tratta soltanto di quello, certo. Alla base c'è, ovviamente, la volontà di vivere (e far cresce quegli ipotetici, eventuali figli) in un paese più concorde con le mie idee di moralità, di responsabilità, di impegno e di diritti.
Quindi, quando abbiamo scoperto del nuovo documentario di Gustav e Luca, intitolato Italy - Love it or leave it, non ci sono stati dubbi e siamo andate a vederlo alla prima al Milano Film Festival (riuscendo in qualche modo a comprare i biglietti e a non rimanere fuori come, purtroppo, molti altri).
Il documentario, girato con molta più tecnica di Improvvisamente, l'inverno scorso ma forse con meno spirito, raccoglie una serie di storie, di esempi positivi e negativi, di immagini di questa Italia contemporanea. L'impostazione dialettica fornita dalla diversa opinione dei due permette di presentare tantissimi dati e diverse motivazioni razionali e non, ma forse non del tutto una sincera opposizione di visioni. Benché Gustav si presenti, infatti, come inamovibile e deciso a lasciare il paese delle contraddizioni, della mafia, dei Berlusconi-fan, il nervo ottimista si avverte forte e costante fin dal principio, com'è giusto d'altronde per un documentario che vuole muovere e smuovere affinché, davvero, possa cambiare qualcosa.
Io però non sono del tutto convinta, e ancora devo arrivare ad una decisione mia.
Forse la differenza sta nella differenza d'età che pur esiste fra la me e loro. E se la loro è la generazione dei delusi, i primi che hanno sofferto dell'involuzione italiana e che, come dice Luca, ormai hanno le ali tarpate, forse noi siamo in una situazione anche peggiore, perché disillusi, diffidenti, ancor meno fiduciosi in un cambiamento.

Postilla: il documentario verrà trasmesso da Rai 3 ( in versione ridotta, 50 minuti azichè un'ora e venti) martedì ventun settembre alle 23 e 50.

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Siamo figli di quella generazione di transito obbligata a rinnegare la cecità dei punti di vista in cui siamo cresciuti, senza sapere ancora dove stiamo andando, perchè qui, l'alternativa non c'è, l'alternativa saremmo noi e la nostra sacca piena di libertà; figli di quelli che uscivi dalle superiori e, BOOM, posto pubblico assicurato a dieci minuti da casa; figli del coito interrotto che ha segnato il nostro concepimento e sembra continuare ad essere l'unica costante in questi giorni di incertezze; interrotti come i nostri contratti, gli affitti, le sicurezze intermittenti o inesistenti; e intanto i giorni rotolano, diventano anni; guardi indietro, e vedi gli angoli ottusi che ti sei lasciato alle spalle, insieme al bigottismo, alle ipocrisie, alle chiusure mentali; guardi avanti e non vedi altro che nebbia. Immobili, prigionieri di un paradosso che ci vuole all'avanguardia, tecnologici, liberi di muoverci nel mondo al costo di un pranzo in trattoria con menù a prezzo fisso; e dall'altra parte atrofizzati dalle troppe opzioni, paralizzati dal pensiero inconfessato che andarsene dove la mentalità è migliore, farà di noi una generazione di evasi, che non hanno potuto ( forse anche saputo e voluto) costruire una società migliore.
Anch'io faccio parte di quelli che progettano la fuga da Alcatraz, ma vorrei tornare, un giorno, tornare al mio paese, con la mia bambina in provetta, i miei furetti, la mia casa di legno, il mio orientamento sessuale bifido e tutte quelle cose che sono io tutte insieme, che in uno sperduta provincia del nord italia, salirebbe in cima alla classifica del gossip locale, ora come tra dieci anni.
Non so ancora se partirò, figuriamoci se so se ritornerò. Ma so che siamo in tanti a pensare di andarcene per trovare una società che rappresenti e rispetti i nostri ideali, e allora mi dico, non sarebbe bello andarcene, prendere una boccata d'aria, di idee, di novità, tornare qui e cercare di scalfire il pregiudizio, costruire una società migliore, tutti insieme?

Dovete scusarmi. E' un difetto di fabbrica, una forma mentis, lo faccio sempre. Parto con scariche del realismo più amaro, e senza accorgermene, finisco nell'utopia pura. Scusatemi. Però sarebbe bello.

LaVero ha detto...

Ciao AllTheBeauties, allora io vorrei potervi dare un consiglio ma non e' un discorso facile. Io ci sono passata, sono scappata dall'Italia per iniziare da capo in un paese piu' civile e in cui e' tutto piu' facile. Avevamo tanti progetti, molti dei quali si sono realizzati, siamo ben inserite, abbiamo un buon lavoro, qualche amico fidato e una bella casetta. Ma non basta.

Io se potessi tornare indietro non scapperei piu'. Sono sette anni che sono lontana e posso dire apertamente che l'Itlia delle contraddizioni mi manca, mi manca il calore delle persone con cui sono cresciuta, la familiarita' dei posti in cui sono cresciuta, le battute, le cose dette in faccia, il vociare dei ragazzini nei parchi, i baci sulle guance e mille altre cose.

Potrei anche fare una lista delle cose che NON mi mancano assolutamente, ma non ce n'e' bisogno, le sapete gia'. Ma spesso vorrei essere li' per dimostrare a tutti che si puo' fare, che va tutto bene, che sono innamorata della mia Eva e che la nostra bimba sta benissimo. E a lottare per cambiare le cose.

Con questo non voglio dire che un'esperienza all'estero vada scartata. Se e' il momento giusto partite. Mollate tutto per un anno, due. Vivere in altra realta' cambia. Spesso in meglio. Per poi tornare piene di energie positive e di conoscenza.

Per concludere, io sono per il 'love it' ma se per voi e' il momento del 'leave it' vi auguro tutto il meglio.

E poi Berlino e' stupenda.

Silvia ha detto...

Posso immaginare la nostalgia, ma credo che oramai siamo in una situazione in cui partire è necessario, almeno per un po'.

Anonimo ha detto...

Penso che siamo in tanti a chiederci partire a no? E per quanto tempo? Al momento quello che mi fa tentennare non è la questione "diritti civili" per sintetizzare, ma sono aspetti più terra a terra e concreti: ho questa laurea (debole, per il mercato del lavoro), conosco queste lingue, che lavoro posso trovare lì? vado a fare l'ennesima cameriera italiana e poi dopo un anno sono da capo? Scusate la brutalità ma penso che le scelte debbano considerare anche questi aspetti. Berlino è bella bella. Sì fa freddo d'inverno.Per il lavoro beh...non è che ce ne sia tantissimo neanche lì e devi concorrere con moltissimi giovani che che si trasferiscono lì per motivi simili ai tuoi. Sicuramente è meno cara di Milano (ci vuole poco :D). Se avete bisogno di provare mi sembra una bella meta per provare. L'importante penso sia non dipingersi un eldorado che non c'è e nello stesso tempo non farsi bloccare dalla paura. Tanto di fatica se ne fa sia partendo sia restando.
Fra

Marta ha detto...

"ho questa laurea (debole, per il mercato del lavoro), conosco queste lingue, che lavoro posso trovare lì? vado a fare l'ennesima cameriera italiana e poi dopo un anno sono da capo?"

eh, lo so.battute sul freddo (contro) e il cibo ed i locali per lesbiche (pro) a parte, questo è l'unico criterio, l'unico vero problema per decidere se emigrare o meno.
a questo si somma " il problema trasporto porcellino d'india", non è che lo possiamo lasciare a casa; ma in sostanza sarebbe una decisione presa dopo aver ponderato cose tristemente serie e concrete, anche perchè che Berlino non sia così facile da vivere ce lo confermano "voci sul campo".
Però l'anno passato mio fratello, (22 anni, conoscenza dell'inglese molto scarsa, viziato come pochi) si è trasferito a Londra, e nell'arco di un mese ha trovato casa, lavoro discretamente remunerativo ed interessante, migliorato il suo pessimo inglese e giurato a sè stesso non sarebbe tornato in Italia mai più.
c'è speranza per tutti! : )

Barbara ha detto...

io vado un po' di fretta quindi cercherò di essere breve e concisa:

1) ci ho messo troppo tempo a decidermi, prima si parte e meglio è
2) non tornerò in Italia MAI e non mi manca PER NIENTE
3) non fate troppe previsioni dall'Italia, senza sapere e toccare con mano ciò che vi aspetta fuori: spostatevi, e poi trarrete bilanci con cognizione di causa. Male che va potete dire di averci provato, mentre passare una vita col rimpianto senza sapere "cosa sarebbe successo se" è una cosa che non auguro a nessuno. A tornare si fa sempre in tempo, è il partire che va incoraggiato.
4) Londra la consiglio a occhi chiusi, nessuno dei camerieri rimane cameriere, questo è un fatto. E quanto a diritti e gay-friendliness siamo ai primissimi posti in Europa
5) Pensate agli ebrei sotto Hitler che hanno atteso... la storia si ripete, anche se in forme diverse.
6) Sono settimane che non riesco a scrivere a mia madre cose diverse da "sono felice, sono tanto felice". La felicità mi sta attaccando da diverse direzioni. Se confronto tutto ciò con gli ultimi tempi bui trascorsi in Italia, è una vera e propria rinascita.

Insomma a Londra vi aspettiamo, e se scegliete Berlino, ci saranno altri lì ad aspettarvi.

Elena ha detto...

Io ci ho pensato e ci penso spesso ad andare via. Prima di laurearmi, ormai undici anni fa (gulp!), ho passato un anno in Germania. Sono rimasta in Italia per una serie di casi fortuiti (non ero a Berlino, ho trovato il dottorato e l'amore a Pisa) e pensando che nel mio Paese sarei stata "più efficace".

Volevo dare un senso ai miei gesti, fare qualcosa che contribuisse a rendere le cose un po' migliori di come le avevo trovate. E all'estero non sarei riuscita a farlo, appunto, con altrettanta efficacia.

Ora come ora penso che c'è da fare tantissimo in Italia. Anche se spesso ho dubbi sulla mia efficacia. E a volte ho una disperata nostalgia, Sehnsucht, per un altrove che posso soltano immaginare e chiamo per comodità Berlino.

Però credo che resterò: un po' per sopraggiunti limiti di età, un po' per quella vecchia storia di cui sopra. Ma non credo si possa dire "fa meglio chi resta", "fa meglio chi se ne va". Tantissimi miei amici/che sono andati/e via. E capisco chi vuole poter vivere bene, senza dover fare i conti con le frustrazioni, trovandosi il lavoro che ama o non dovendo combattere tutti i giorni per fare le cose più elementari (dai figli al resto).

Barbara ha detto...

Io per una serie di "casi fortuiti" sono partita quasi 5 anni dopo la fine del dottorato, quindi la questione dei "limiti di età" non la vedo.

Per me non è solo il "vivere bene" in sé; per me il "vivere bene" è una condizione necessaria per l'efficacia. Se mi incazzo un giorno sì e uno no, cosa posso fare di produttivo? Se sopporto quotidianamente ingiustizie, che tipo di persona potrò diventare? Se non cambio contesto adesso, cosa succederà quando non avrò più l'energia di combattere? Mi adeguerò all'Italietta? Farò finta di non vedere? Perderò ogni sensibilità civica? Aspetterò la morte chiusa nei piccoli agi della mia casetta?

La storia non è fatta da 4 geni volenterosi, è fatta quando una massa critica riesce a scardinare un sistema. Voi direte, se te ne vai la massa critica non sarà mai raggiunta, ma io dico: non sarà raggiunta nemmeno se resto. Se le elezioni sono falsificate, pure un'affluenza del 100% è inutile. E se resto non posso essere critica. E se non posso essere critica non posso essere.

La storia mi insegna che non è saggio porgere l'altra guancia. Da un lato ho grande ammirazione di chi resta, ma dall'altro mi dispiace che le energie vadano sprecate perché i paesi "civili" sono grandi anche grazie agli immigrati. Anzi, più sanno integrare gli immigrati e più sono civili. Non si emigra per egoismo, ma per essere messi in condizione di essere altruisti...